Nostalgia pungente.

Guttuso - Cactus sul Golfo di Palermo 1978Di aria salmastra e di danze trasparenti di meduse. Di occhi chiusi controluce.
Del profumo inebriante di gelsomini e capperi e alghe bruciate, di ombre nette come disegni a puntasecca.
Di fichi d’India spaccati nella terra rossa, di piedi scalzi sulle maioliche lucide, e cuscini umidi sull’intonaco e sulle pietre delle terrazze.
Di gatti di porto arruffati tra enormi giare e agavi verdi, di strati di vernice blu sulle porte corrose dal sale, dell’argento di ulivi nodosi, delle scie roventi dei lapilli sulla terra nuda prima di tuffarsi nel mare.
Della presenza degli dèi antichi quando il sole acceca e le cicale suonano un canto assordante e le onde rombano contro la roccia.
Misteri dallo sguardo abissale e dal sorriso enigmatico nascosti nella luce troppo forte anziché nelle nebbie.
Prima o poi scappo nel mio angolo minoico.


(Renato Guttuso, Cactus sul Golfo di Palermo, 1978)

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Dell’Erranza

800px-Marseille-Vieux_port_vers_1900La cosa forse vi stupirà, ma non sono un viaggiatore: appartengo all’erranza.
Mio padre, dato che aveva incontrato una bella sivigliana, si è fermato lungo la via dell’esilio, a Marsiglia. Sarei potuto nascere altrove, come i miei cugini, a Buenos Aires, a New York, oppure in Canada, dove poco dopo la guerra i miei genitori sognavano di andare a vivere. Non avrebbe fatto nessuna differenza: qui o altrove, ero figlio di un esule. E’ il mio unico bagaglio, la mia unica eredità, la mia memoria, dunque la mia storia.
Questo significa che il sangue che mi scorre nelle vene non appartiene a una razza, a un paese, a una terra, nemmeno a una nazione. Un giorno dovrò spiegarlo, raccontando gli itinerari dei miei vecchi amici, armeni e greci, spagnoli e gitani, figli dell’erranza anche loro. “Essere di un altro posto” cambia tutto: il mondo lo guardi in modo diverso. Intendo dire che ovunque mi trovi, sono a casa mia. […]
Tutte queste cose le ho imparate da mio padre, e Marsiglia ha perfezionato la mia educazione. Al di là dell’orizzonte, che guardavo dalla punta della diga del Large, sul porto, sapevo di avere cugini, cugine, con i loro numerosi figli. Sono ancora in qualche posto, laggiù, ma non so più dove.
Da quale parte del filo spinato che divide Cipro tra Greci e Turchi? Su quale ipotetica frontiera del Rwanda? In quale nazione dell’ex Jugoslavia? O in quale malsano campo nomadi alle porte della città? Quando penso a loro, mi cominciano a prudere i piedi, tiro fuori la mia valigia di cartone e medito di mettermi in viaggio. Per andargli incontro, e condividere il piacere che abbiamo in comune: il piacere dell’universo.”

Marseille, Vieux Port avec vue de la Vierge de la Garde et de son ascenseur, vers 1900, fotocromia
&
Jean-Claude Izzo, Aglio Menta e Basilico, Edizioni e/o 2006

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…a me stessa troppo piaceva ridere quando non si può.

adrien-coorte-1660-1707-natura-morta-con-fragole-1705-royal-picture-gallery-mauristhuis-the-hagueCammini, a me somigliante,
gli occhi puntando in basso.
Io li ho abbassati – anche!
Passante, fermati!

Leggi – di ranuncoli
e di papaveri colto un mazzetto
– che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo.

Non credere che qui sia – una tomba,
che io ti apparirò minacciando…
A me stessa troppo piaceva
ridere quando non si può!

E il sangue fluiva alla pelle,
e i miei riccioli s’arrotolavano…
Anch’io esistevo, passante!
Passante, fermati!

Strappa uno stelo selvatico per te
e una bacca – subito dopo.
Niente è più grosso e più dolce
d’una fragola di cimitero.

Solo non stare così tetro,
la testa chinata sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami.

Come t’investe il raggio di sole!
Sei tutto in un polverio dorato…
E che almeno però non ti turbi
la mia voce di sottoterra.

Marina Ivanovna Cvetaeva
(Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941)
&
Adrien Coorte
(ca. 1665 – post 1707)
Natura morta con fragole, 1705, Royal Picture Gallery Mauristhuis, The Hague

 

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Marina.

Nave FeniciaAvvolta dal cielo grigio e da fotografie di nebbie e nevi, all’improvviso mi assale quella nostalgia acuta che conosco: mi visita ogni anno a metà inverno, proprio nel tempo in cui sono nata, sotto le stesse piogge che ora battono sui vetri.

Nostalgia dell’odore della brezza marina, del canto incessante, dei passi che dividono la riva dall’abbraccio liquido che in un istante scopre ogni segreto del corpo, la vertigine e l’onda, sotto la spuma le profondità dei blu e dei verdi, e nel risalire quella linea sottile che divide l’universo dell’aria da quello dell’acqua – quante volte mi sono divertita a guardarci attraverso, facendola cadere esattamente a metà delle mie pupille, sospesa tra due mondi – confine violato solo per un attimo dal tuffo di un gabbiano o di un pesce.
Il sole del Mediterraneo che ritaglia contorni così netti da rendere ogni cosa irreale. Chiaroscuri scolpiti da uno scalpello arcaico e severo. L’ora accecante in cui tutto è immobile, solo le cicale cantano un canto ipnotico. Forse l’ora in cui possono apparirti gli dei, dopo penserai che è stato uno scherzo degli occhi. Allora case buie dai muri freschi offrono loro rifugio da quella luce, fatta per sguardi non mortali. Dopo, la notte profumerà di resina e gelsomini, forse ti addormenterai sul muretto tiepido della terrazza.

Ma anche nostalgia di altri inverni, inverni di acque argentee, pieni della voce assordante delle onde che si sovrastano a vicenda, mugghiando storie in una lingua troppo antica perché tu possa capirla: gli uccelli rispondono un controcanto stridente. L’acqua allora conquista la terra, mangia la riva: lascerà poi in cambio doni dai suoi viaggi lontani, conchiglie sassi legni vetri ossa, levigati dalle sue innumerevoli mani esperte. Il vento spira duro, non neve ma salsedine acre copre ogni cosa, sottile e invisibile, eppure la senti ovunque, sulla pelle, sui capelli, nel respiro, sugli oggetti corrosi, sulle labbra salate.
Ti volti verso quella distesa cangiante, in ogni stagione, nella luce limpida o in mezzo alla tempesta, e ti accorgi che in quel momento potresti essere in ogni secolo e parlare ogni lingua, quasi aspetti che spunti all’orizzonte una nave fenicia.

Nostalgia di cose non vissute ma nitide nella mia memoria. E mi dico che dovrei essere nata quando la vita era a Sud.

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Tornata.

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Tornata.
La valigia piena di colori e profumi: granite di gelsi, fichi, mandorle e brioche, fresco risveglio delle mattine di fronte al mare, fichi d’india arrampicati in impossibili intrecci sulle rocce di lava rossa e nera, giardini fioriti di gelsomini e capperi, tra cubi di case incipriate di bianco come antiche e fiere signore, appena dischiuse da piccole finestre, ornate di giare di terracotta e candide colonne contro il cielo intenso, ingentilite da cascate di glicine e viti, e chiese mangiate dalla salsedine e colorate di maioliche variopinte, il respiro concorde di Eolo salmastro, di Efesto e Poseidone, la danza dei gabbiani che narra della vita di marinai e pescatori ormai senza nome, il vento di tempesta che sconvolge il cielo e il mare intorno agli scogli notturni e immobili, il suono dolce di una lingua aperta e chiara come quel sole tagliente che non conosce sfumature ma solo ombre e luci, chiaroscuri e ossimori, che plasma le cose così nette e reali da far intuire il loro intimo mistero. E poi campi infiniti, e città incantate e immobili, tutto d’oro, il grano, le montagne, le pietre delle case, il terreno arso sotto i pini, il legno e lo stucco dei fregi, la luce infuocata, la lava, l’olio d’oliva, le scorze di arance amare. E lo sguardo penetrante di dèe un tempo coperte anche loro d’oro, ora imbiancate dal tempo e dimenticate dagli uomini, eppure capaci di scrutarti coi loro occhi di marmo, ancora signore di questa terra.
E in un angolo di questa valigia troppo piena, il pensiero delicato e discreto come un fiore di cappero che un giorno potrei viverci, ché un po’ le appartengo di diritto, a questa terra inebriante di colori e profumi forti e limpidi come un epigramma antico, così carichi di contrasti e di allusioni che forse non tutti possono sostenerli.
Solo qui potevano vivere gli dèi.

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Mio vero

Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.

Mariangela Gualtieri

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La Città



Hai detto: "Per altre terre andrò, per altro mare.

Altra città, più amabile di questa, dove

ogni mio sforzo è votato al fallimento,

dove il mio cuore come un morto sta sepolto,

ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?

Dei lunghi anni, se mi guardo attorno,

della mia vita consumata qui, non vedo

che nere macerie e solitudine e rovina".



Non troverai altro luogo non troverai altro mare.

La città ti verrà dietro. Andrai vagando


per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.

Imbiancherai in queste stesse case. Sempre

farai capo a questa città. Altrove, non sperare,

non c’è nave non c’è strada per te.

Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto

tu l’hai sciupata su tutta la terra.



Costantinos Kavafis

La Città

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Così è la vita, amore mio…

  

  

Così è la vita che ci sospende
con i suoi segni inconfondibili, il suo cuore palpitante
e il nostro sangue che si rapprende.
Così è la vita che ci riguarda
con i suoi giorni imprevedibili,
un dolore che non ritarda,
una spia luminosa si accende.
Così è la vita, generosa
come un’altare agli occhi di una sposa,
con i suoi bivi, i binari di scambio, e noi
suoi pezzi di ricambio.
Così è la vita che ci riprende
dalle speranze che disattende,
tentazioni e avemarie,
E un cielo che si stende.

Così è la vita, amore mio,
e tu che mi cammini accanto
raccoglila, trasforma in un sorriso questo pianto.
Così è la vita, amore mio,
tu fammi grande questo tempo,
sollevami, tu dammi forza, tu dammi cemento.
Così è la vita e ci sbatto la testa,
e noi a ballarla come una festa,
noi vestiti per l’occasione, e una canzone…

Così è la vita che ci difende,
combinazioni incomprensibili, il suo battito incalzante
e questo sole che sale e scende.
Così è la vita che ci frammenta
dentro i ricordi ben visibili, paura che ci spaventa,
e una notte brava che ci spende.
Così è la vita che ci riscatta,
e milioni di lotterie e profezie, destini nelle carte, e noi
a mettere da parte.

Così è la vita, amore mio,
tu che alla sera torni stanco,
sorreggiti con me qui sotto questo telo bianco.
Così è la vita, amore mio,
lei che procede a fuoco lento,
abbracciami, prendiamo tutto quanto in un momento.
Così è la vita, in te la riconosco,
con i suoi rovi, i suoi frutti di bosco,
E noi a cantare una nuova stagione, e una canzone…

Così è la vita, Mariella Nava, 1999

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Les Passantes

 

La rue assourdissante autour de moi hurlait.

Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,

Une femme passa, d’une main fastueuse

Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;


Agile et noble, avec sa jambe de statue.

Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,

Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan,

La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.


Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté

Dont le regard m’a fait soudainement renaître,

Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?


Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !

Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,

Ô toi que j’eusse aimée, à toi qui le savais !

A une passante

Charles Baudelaire, Les Fleures du Mal, 1857

Je veux dédier ce poème

A toutes les femmes qu’on aime

Pendant quelques instants secrets

A celles qu’on connaît à peine

Q’un destin différent entraîne

Et qu’on ne retrouve jamais


A celle qu’on voit apparaître

Une seconde à sa fenêtre

Et qui, preste, s’évanouit

Mais dont la svelte silhouette

Est si gracieuse et fluette

Qu’on en demeure épanoui


A la fine et souple valseuse

Qui vous sembla triste et nerveuse

Par une nuit de carnaval

Qui voulut rester inconnue

Et qui n’est jamais revenue

Tournoyer dans un autre bal


A la compagne de voyage

Dont les yeux, charmant paysage

Font paraître court le chemin

Qu’on est seul, peut-être, à comprendre

Et qu’on laisse pourtant descendre

Sans avoir effleuré sa main


A celles qui sont déjà prises

Et qui, vivant des heures grises

Près d’un être trop différent

Vous ont, inutile folie,

Laissé voir la mélancolie

D’un avenir désespérant


Chères images aperçues

Espérances d’un jour déçues

Vous serez dans l’oubli demain

Pour peu que le bonheur survienne

Il est rare qu’on se souvienne

Des épisodes du chemin


Mais si l’on a manqué sa vie

On songe avec un peu d’envie

A tous ces bonheurs entrevus

Aux baisers qu’on n’osa pas prendre

Aux cœurs qui doivent vous attendre

Aux yeux qu’on n’a jamais revus


Alors, aux soirs de lassitude

Tout en peuplant sa solitude

Des fantômes du souvenir

On pleure les lèvres absentes

De toutes ces belles passantes

Que l’on n’a pas su retenir.


Les passantes

Antoine Paul, 1918

 

http://www.youtube.com/watch?v=l4Q7urIVYAE

A colui che si ferma a guardare la bellezza sospesa e rapida di una passante soltanto per aggiungere alla sua vita l’istante di un sogno lontano e solitario, per una felicità che "non è altro che visione, e labile acquerello"…


 

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Preghiera del Clown

 

 
 
"Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo.Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa’ che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini.Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l’unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa’ che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamante le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un pò perchè essi non sanno, un pò per amor Tuo, e un pò perchè hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri."

 

(Totò, "Il più comico spettacolo del mondo")

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